lunedì 4 maggio 2009

Maria Di Carlo - Harika

Istanbul. Città dai forti contrasti sociali. Città di poveri e di ricchi. Città di disperazione e abbondanza. Strada di mezzo tra Europa e Asia.
Ad Istanbul, non tutte le persone con carenze economiche avevano anche carenze di felicità. All’interno di una piccola catapecchia, una ragazza sui vent’anni si massaggiava il ventre. Non riusciva a frenare l’entusiasmo. Ogni tanto scendeva qualche lacrima di gioia: sarebbe diventata mamma. Nutriva illusioni su illusioni, ma d’altro canto è quello che, più o meno, fanno le giovani mamme in erba.
Presso quella zona, si mormorava già da una settimana della sua presunta maternità e c’erano dei sospetti piuttosto fondati su chi fosse il “colpevole”. Si diceva che il proprietario di una pasticceria avesse avuto la meglio sui tanti pretendenti. Quest’ultimo aveva comprato quella pasticceria qualche mese fa, da un pover’uomo che non aveva attitudini lavorative. Lui aveva trent’anni ed era un enigma, per tutti i pettegoli più informati, come avesse fatto a conquistare la giovane bellezza Harika.
Giulio Spera “Il Pasticciere”, così era ormai conosciuto, aveva assunto Harika come aiutante. Tra i due era scoccata la scintilla, ma non volevano saperne di matrimonio. Tuttavia esattamente da una settimana, al Pasticciere venivano a mancare le tante parole che riempivano la sua bocca, le stesse che usava per spingere almeno alla vendita di un dolce – e conquistare – le più vivaci e golose signore dei dintorni.
Harika si alzò dal letto dopo aver dedicato, come al solito, qualche minuto al suo bambino e iniziò a prepararsi. Non le pesava più alzarsi la mattina dopo la grande notizia. Il Pasticciere era già in negozio a sistemare i dolci in vetrina. Era nervoso e non si notava poco. Entrò un uomo poco dopo. Sembrava non aver mai conosciuto una lametta da barba, cosa che accentuava la sua aria trasandata e poco raccomandabile. Salutò con un cenno del capo. “ Fra poco Harika sarà qui, ti devo parlare.” Disse il signor Spera nervoso. L’uomo si strinse nelle spalle e così continuò “Ho intenzione di tornare in Italia!”. “Cosa? Come ti viene in mente? Qui hai uno splendido negozio, sei rispettato da tutti e hai una bellissima ragazza. Vuoi tornare in Sicilia e patire la fame? Perché?” ribatté l’uomo alzando la voce a ogni punto di domanda. “ Non voglio campare un bambino per tutta la vita. Mi seguirai?”.
In quel momento irruppe nel negozio Harika raggiante e a Giulio cadde il cuore dal petto vederla così felice. Le orecchie gli diventarono rosse e furono accompagnate da conati di vomito. Non era giusto dover scegliere. Vide con la cosa dell’occhio suo fratello dileguarsi. Si avvicinò con cautela ad Harika come se fosse un cane aggressivo. Aveva già assistito a una sua scenata di rabbia, quando in giro si diceva che faceva la corte alle clienti. Non era stato piacevole. “ Harika” iniziò, lei per tutta risposta gli prese la mano e la poggiò sulla sua pancia. Lui la ritrasse velocemente, di male in peggio. Perché doveva rendere tutto più difficile? Tentò di ricominciare “Harika! Devo andare in Italia per lavoro. Probabilmente tornerò tra qualche mese... ” disse scandendo bene le parole.
All’inizio Harika rimase con la fronte aggrottata, poi esplose. Iniziò a parlare in un arabo incomprensibile, non poteva lasciarla sola con un bambino da mantenere. Sentiva la rabbia ribollirgli dentro. Ciò non avrebbe giovato al nascituro, così decise di andarsene sbattendo la porta per mettere un punto al suo discorso.
Il giorno dopo la pasticceria era vuota. Il cartello “VENDESI”, incuteva tristezza ai clienti e anche ai semplici passanti. Di Giulio Spera “Il pasticciere” non si seppe più nulla. Erano in molti che pensavano che aveva fatto una vigliaccata e non sarebbe più tornato. Harika invece credeva nella sua parola come un cristiano crede ai miracoli, e nutriva in segreto il desiderio di raggiungerlo. Divenne improvvisamente interessata ai viaggi clandestini che organizzavano, una volta al mese, nei sotterranei di un vecchio magazzino. Esma, la sua amica, cercava di dissuaderla “E’ pericoloso!” ripeteva ad ogni occasione “ Vi trattano come cani e tu poi, tra un mese partorirai. Rischi di perdere il bambino.” A quelle parole Harika s’irrigidì. “ fra un mese sarò già da Giulio e partorirò in uno splendido ospedale” disse sognante “ L’Italia e molto ricca. Le case dove abitiamo noi li usano come cuccia per cani, loro vivono in palazzi. Che bello! Potrò comprare al mio piccolo dei vestitini, sarà un principino! Troverò lavoro e potrò mangiare quello che normalmente mangio in un mese!”. Esma era molto scettica sul futuro fortunato dell’amica. Naturalmente, nei sotterranei, avevano parlato dell’ Italia e della Germania come qualcosa di divino e fuori dal comune, qualcosa di indescrivibile ed inimmaginabile, per usare le loro parole “ Fuori dalla vostra portata”. La voglia di rivedere l’italiano e il desiderio di avere un futuro migliore, le oscuravano il senso della ragione e lasciavano libera entrata alle illusioni. Erano quelle forse, che gli davano la forza di andare avanti, dopo che aveva perso il lavoro alla pasticceria e dopo aver vissuto per tre settimane con una busta di denaro che le aveva lasciato il fidanzato, cercando di farlo bastare per più tempo possibile, finché avrebbe trovato lavoro. Impresa ardua.
Qualche giorno dopo, Harika si ritrovò su quella barca che le tormentava i sogni. Aveva sognato che si fermava a metà del tragitto, oppure che affondava; lei non sapeva nuotare … La barca era piena più del dovuto e si sentiva soffocare. Doveva stare così per cinque giorni? Dove avrebbe dormito? Sentì il bambino scalciare un po’. Ormai la sua pancia era un’enorme collina, le sue condizioni erano troppo evidenti.
Si fece spazio tra la folla e si avvicinò alla ringhiera. Voleva vedere per l’ultima volta Istanbul, non voleva più tornare poiché nessuno l’aspettava ormai, nemmeno Esma. Percepì la barca muoversi e vide la costa allontanarsi. Una lacrima capricciosa le scese lungo il viso dai tratti eleganti ma allo stesso tempo decisi. Gli occhi erano quelli che le avevano permesso conquiste, scuri, intensi e penetranti. I capelli, anch’essi scuri, le scendevano lungo la schiena e le conferivano un’aria da ragazzina inesperta, quello che in realtà era fino in fondo. Le condizioni della barca erano pietose. La vernice era scrostata, le pareti e il pavimento erano sporchi e fangosi e, se qualcuno avesse spostato da parte la sporcizia avrebbe visto che il parquet (credo che in barca si tratterebbe di pavimento in legno) era sollevato. Nella parte esterna della cabina di pilotaggio c’era una scritta a caratteri cubitali. Era sbiadita, ma si leggeva chiaramente “Orhan”.
Le tenebre scesero senza farsi attendere e nonostante fosse piena estate, portò un venticello freddo e fastidioso. Harika rabbrividì. Cercò di circondarsi da quante più persone e cercare un posto più riparato ma, nonostante tutto, il vento le tagliava il viso e penetrava nelle ossa. Non temeva molto per il bambino. Le dicevano tutti, fin da piccola, che aveva un fisico forte e una salute di ferro come sua madre. Di questo se ne vantava spesso. Si addormentò pensando a lei e a quanto le aveva voluto bene.
Quando aprì gli occhi era l’alba, anche se a lei parve che fossero passati solo cinque minuti. Le faceva male il collo e la schiena, in più le gambe e i piedi le pizzicavano. Doveva alzarsi e sgranchirsi , impresa ardua in quanto, la superficie della barca era un tappeto di corpi inerti. Rabbrividì al solo pensiero di farne parte anche lei. Prese la tovaglia dove aveva avvolto qualche pezzo di pane semi-duro, una bottiglia d’acqua e dei fichi, per fornire al suo corpo gli zuccheri di cui aveva bisogno. Imbevve il pane d’acqua per ammorbidirlo e ne addentò una piccola parte. Era disgustoso.
Fu allora che si sentì mancare. Un dolore le attraversò tutto il corpo tanto da non capire il punto d’origine. Le doglie? Chiuse gli occhi, digrignando i denti. Iniziò a respirare profondamente. Dopo alcuni istanti riemerse dall’incubo. I vestiti erano zuppi d’acqua, rabbrividì a una ventata e si lasciò andare contro la parete.
C’erano parecchi bambini in quella barca. Rimase colpita da uno piuttosto minuto. Piangeva senza sosta. La signora vicino a lui lo prese a schiaffi, doveva essere la madre. I pianti del bambino si trasformarono in singhiozzi. Harika tentò di rialzarsi con cautela, avanzando sotto le gambe tremanti, verso il bambino. La madre la vide arrivare e accarezzare la testa del bambino, il quale sembrava godersi le coccole. “Lascia stare mio figlio!” abbaiò la madre tirandolo per sottrarlo a quella sconosciuta. Harika la ignorò “Cosa hai da piangere in quel modo?” chiese gentilmente. Il bambino non rispose, i singhiozzi non gli permettevano di parlare. Suo malgrado lo fece la madre, chiedendosi se questa ragazza dalla bellezza divina possedesse altrettanti poteri. “Ha fame. I nostri viveri sono caduti in mare questa notte. Non ci è rimasto più nulla”.
Harika rimase per un attimo senza parole. C’erano altre persone senza cibo e se lo avrebbe offerto a quella famiglia, non avrebbe sopportato gli sguardi accusatori degli altri. Lanciò un’occhiata furtiva al bambino, non singhiozzava più ma piangeva lievemente. Fece quello che sentiva giusto. Andò al suo posto trascinandosi dietro il bambino con la madre alle calcagna. Prese il suo sacco e ne uscì fuori due fichi, un piccolo pezzo di pane e l’acqua. Poi strappò un pezzo di tovaglia con i denti e vi mise ciò che aveva preso. ”Prendi il sacco più grande,mangia e distribuisci anche a chi, come te, non ha più nulla. Promesso?” il bambino per tutta risposta si asciugò gli occhi e batté le ciglia che trattenevano gocce salate. Anche Harika aveva fame, ma decise che era meglio conservare quel poco che le era rimasto. Tuttavia era felice, si sentiva leggera e la gioia riempiva il vuoto della fame, mentre il bambino mandava segnali di vita.
Passò il giorno e anche quello seguente osservando gli altri bambini e le loro madri, per apprendere qualcosa di quel mestiere faticoso da comprendere. Alcuni bambini si creavano un angolino e rannicchiati immaginavano probabilmente una vita migliore guardando il cielo e il mare, le uniche cose che regalava il paesaggio. Quando calò la sera, tutti si misero a sedere, in postazione di dormire. Si potevano scorgere solo i profili di chi era posizionato ai margini della barca, il resto era una masso nero.
Harika stava male, aveva la nausea, come al solito, ma avvertiva un dolore forte. Cercò di distendersi, ma era peggio. Chissà cosa stava facendo Il Pasticciere? Meglio chiedersi “Chissà dov’era?”. Come l’avrebbe trovato? Il cuore le iniziò a battere più forte, si lasciò trasportare dal panico. Aveva sempre pensato che Giulio avrebbe atteso il suo arrivo e l’avrebbe portata in una casa accogliente. Ma ora, non le sembrava più tutto così scontato. L’Italia poi, l’avrebbe accolta? Che futuro aspettava lei e il suo piccolo? Quelle certezze che l’avevano spinta a fare così tanto con un bambino in grembo, rischiando di perderlo, svanirono così come erano arrivate. Voleva tornare a casa, ma ormai doveva andare avanti.
Le doglie si fecero violente, sentiva lame affilate che le trapassavano la pelle. Un urlo partì dallo stomaco e uscì dalla sua bocca. Non riuscì a reprimerlo. Vide molte teste girarsi per guardare cosa stesse accadendo. Il suo piccolo chiedeva libertà, ma doveva resistere. Non lì, non doveva succedere nella barca, fra il fango e lo sporco, con occhi estranei puntati addosso. “aiuto!” gridò con tutta l’energia che le restava. “aiutatemi, per favore!”. Si trascinò avanti con le mani e vide l’immagine tremante di madri che coprivano gli occhi dei loro bambini. Forse fu la sua immaginazione, ma vide tre donne avanzare verso lei. Poi una pugnalata potente, la più forte che avesse mai sentito durante l’arco di otto mesi e mezzo. Buio totale. Correva in un viale asfaltato, era grigio di fronte a lei e tutto intorno, ma non le importava. Se correva forse avrebbe raggiunto la felicità. Si tuffò nel mare davanti a lei, tutt’attorno vedeva solo grandi palazzi, negozi, vetrine colorate e in lontananza le parve di scorgere un tavolo che galleggiava ricco di cibi prelibati che non aveva mai visto. Una culla? Cercò di raggiungerla ma non poteva, riuscì stranamente a vedere all’interno. Un bellissimo bambino dalla pelle delicata e morbida, sonnecchiava beato. Aveva un delicatissimo vestito di seta ricco di merletti e ricami. Un ricamo le ricordava qualcuno, in un modo o nell’altro, anche se non assomigliava di certo a una persona. Le ricordava un uomo affascinante che sapeva preparare dolci squisiti.. quella visione gli oscurò la vista.
Si era svegliata, aveva ancora gli occhi chiusi. Sentiva, a contatto con la sua pelle, una coperta calda ma ruvida e fastidiosa. Voleva rimanere immobile in quella posizione per sempre, stava bene e si illudeva di essere spensierata. Che strano sogno. Aprì gli occhi e fu accecata dalla forte luce del giorno. Il bambino? Il bambino!! Si mise a sedere ma avvertì una fitta nel ventre. Una donna, l’aiutò a distendersi nuovamente, le rimboccò le coperte. “Complimenti signora! Ha appena partorito un bel bambino” disse felice. “io e altre due donne, l’abbiamo fatto nascere. Parto cesareo ovviamente. Deve stare attenta alla cucitura”.
Harika non sapeva cosa fare prima. Volava ringraziare tutti, vedere il bambino e toccare la cicatrice che le aveva permesso di dare alla luce il suo piccolo! “Dov’è adesso?” chiede infine “ Lo stanno portando proprio adesso” esclamò indicando in fondo. Una signora piuttosto robusta avanzava con un fagotto tra le braccia. Sorrise ad Harika e le posò il piccolo sulle gambe. Harika lo sfiorò delicatamente come se tenesse qualcosa di terribilmente fragile e temesse di romperlo. Aveva gli occhi aperti, vispi e chiari, come il padre.”Abbiamo usato la tua acqua per pulirlo. Per il parto ci siamo aiutati con i normali utensili che avevano portato qui le persone. Erano sporchi, li abbiamo puliti con l’acqua del mare, ma il taglio si è infettato lo stesso. Dobbiamo pulirlo ogni giorno”. Harika ascoltò distrattamente, ma non riuscì ad essere preoccupata per quel graffio, aveva gli occhi solo per quella creaturina nuda, coperta solo dall’amore che la madre gli trasmetteva. “ Come si chiamerà?” chiese. Harika ci pensò su, ma in realtà sapeva come l’avrebbe chiamato “ Orhan. Come la barca dove ha visto la luce.”
“Devi mangiare!” continuava a ripetere una delle tre donne. Harika la fissò. Non aveva più nulla, i pochi alimenti che non aveva donato, qualcuno li aveva rubati. In effetti si sentiva debilitata, teneva a stento il suo piccolo. Il mare era un po’ mosso e scosse leggermente la barca. Un Lokum scivolò verso di lei, infangandosi leggermente. Ricordò che un uomo, in quella barca ne aveva portato un piccolo cesto, di tanti gusti. Prese il quadratino. Era all’acqua di rose con una spolverata di farina di cocco. Chiuse gli occhi per non guardare lo sporco e lo mise in bocca. Nonostante tutto era dolce, morbido e saporito. Non le importava quanti germi ingurgitava. Capiva solo in quel momento quanta fame aveva avuto e quanto le mancava il cibo di Istanbul benché fosse scarso di quantità.
I giorni seguenti passarono velocemente. Si era posto molte domande durante il tragitto, domande seguite da dubbi. Ma ormai, dopo tutto quello che aveva affrontato, si sentiva pronta ad iniziare un nuovo capitolo della sua vita. In cuor suo nutriva ancora l’illusione di sposarsi con Giulio e vivere con lui e il bambino. L’avrebbe cercato ancora, ma non sentiva più quell’ossessione che le alterava la ragione e il buon senso.
Arrivarono in una giornata di un caldo asfissiante, nonostante l’influenza marittima. Un uomo si era alzato tenendo la mano sopra gli occhi “Terra!Siamo liberi!” aveva urlato. Ci fu un momento di commozione generale. I moribondi non capivano nulla, chi aveva un po’ di forza piangeva.. Harika non lo fece. Aveva un’espressione dura, un futuro difficile l’attendeva.
Era mattina quando la barca si fermò a contatto con la spiaggia. La gente si catapultò fuori. Harika scese a fatica, dolorante e con il bambino in un braccio. Le gambe le tremavano per la sensazione di essere ancora in acqua. Si tolse le scarpe per poggiare i piedi, nudi sulla sabbia. Voleva sentire di essere veramente sulla terra ferma. Si avviò risoluta verso il paese. Era stanca e alla fine decise di fermarsi in una piazzetta.
C’erano delle panchine e tutt’attorno alberi, aiuole e fiori, poco più avanti si ergevano case non baracche. La gente sembrava non notarla, solo qualcuno rivolgeva occhiate furtive al piccolo Orhan. Harika si sedette in una panchina bene nascosta dal verde e osservò il tutto. Era un paese molto movimentato. Non che la parte più agiata di Istanbul non lo fosse, ma quella città aveva qualcosa di particolare. Uomini e donne eleganti dal passo veloce e sicuro, bambini che tenevano la mano alle mamme e urlavano o piangevano. A Istanbul potevi vedere questi particolari, ma notarli in un’altra città è ben diverso.
Orhan iniziò a piagnucolare e finì per piangere. In effetti era l’ora giusta per mangiare. Harika si tolse la giacchetta e mise a nudo la sua femminilità. Per quanto fosse ben nascosta, le occhiate della gente la raggiungevano. Erano più che altro occhiate di disprezzo. Harika sapeva che i luoghi pubblici non erano adatti per allattare, ma non sapeva dove andare. La rabbia e l’imbarazzo le friggevano le viscere. Solo qualcuno guardava con pietà quel quadretto. Passò una signora vicino la panchina. La guardò per qualche secondo e infine le posò qualche monetina accanto. Harika guardò con disgusto quel denaro di cui non conosceva il valore.
Non aveva mai avuto bisogno di elemosina. Si sentiva umiliata e capì di aver toccato il fondo in qualche giorno. Lanciò un’occhiata arrabbiata alla signora, la quale era rimasta in attesa di un segno di gratitudine che non arrivò. Il disprezzo da parte di Harika era quasi palpabile, tanto che quella si dileguò risentita. Frenò le lacrime e prese quella monetina, la prova della sua povertà.
Tornò a rivolgere la sua attenzione ad Orhan. Era strano, rifiutava di mangiare ma piangeva. Di che aveva bisogno? Guardò quella bocca sdentata. Non sapeva nulla di bambini, se non quello che le avevano insegnato le tre donne che le avevano salvato la vita. Già. Non sapeva nemmeno il loro nome, non le aveva ringraziate perché le aveva perse di vista subito dopo l’arrivo. Cosa fare? La delusione di essere una madre incapace si impossessò di lei. Orhan divenne rosso in faccia. Un rosso necessario a far capire ad Harika che non era un malessere passeggero. Lo poggiò contro il suo petto e prese a camminare.
In fondo al viale c’era un edificio, anche se era buio non le fu difficile individuarlo, era grande e bianco. Si diresse verso la porta e bussò. Nessuno avrebbe potuto mai sentire il suo bussare tremante. Si accorse che nella parete di fianco c’era un piccolissimo bottoncino, lo identificò come un campanello e suonò. Si guardò intorno, tutte le luci erano spente. Provò nuovamente, ma dopo pochi minuti si dovette convincere che non c’era nessuno. Andare da qualche altra parte era improponibile dato il buio che l’attorniava, spezzato solo dalla flebile luce dei lampioni. Il bambino non piangeva più, si era addormentato. Si distese, nella panchina di fronte all’edificio e lì, aspettò l’alba.
Fu svegliata da dei ticchettii sulla tempia e mormorii vari. Aprì gli occhi. Quelle che sembravano suore tenevano Orhan tra le braccia. Si alzò di scatto per difenderlo da quelle estranee invadenti. Una di loro la bloccò, “Vi vogliamo aiutare. Il piccolo sta male e tu, benedetta ragazza, tremi.” Disse preoccupata. “ Entriamo dentro. Ti curerà il nostro dottore!” le spiegò tenendole le spalle per dirigerla all’entrata dell’edificio bianco, che la notte prima le aveva negato l’asilo. Attraversò alcuni corridoi dove delle altre suore facevo avanti e indietro, voltandosi al suo passaggio. Non poté fare a meno di notare la differenza di attenzione tra la gente in strada e quella all’interno dell’edificio. Non vide più le suore che tenevano il suo bambino. “Orhan?” chiamò spaventata guardandosi attorno. “Orhan? Il tuo bambino?” chiese la suora che era rimasta con lei “ sta molto male, lo hanno portato con urgenza dall’altro medico” disse senza nascondere la sua preoccupazione. Ma perché preoccupata? Non era suo figlio in pericolo di vita. La suora comprese il suo pensiero ma fece finta di niente. “Accomodati in questo lettino. Il dottore sarà qui a momenti!” disse lasciando intendere che era un congedo da parte sua, per il momento.
Alcuni istanti dopo, un giovane uomo in camice verde avanzò verso di lei salutando. Mentre le controllava cappelli, lingua e occhi, Harika non resistette alla tentazione di chiedere “Dove sono?”. “Questo è un convento, cioè il luogo dove vivono le suore. Ma qui molte persone vengono per fare volontariato. E’ un posto tranquillo. L’ideale se cerchi la pace interiore. Bene, hai solo un poco di febbre leggera” disse infine dandogli un colpetto amichevole sulla pancia. “Ah!” gemette Harika. Al tocco, se pur leggero, del dottore aveva avvertito un dolore lancinante. “Cosa hai? Fammi vedere. Posso?” chiese cortesemente il dottore per non sembrare invadente. Harika si lasciò alzare la giacchetta. Notò l’espressione esterrefatta del dottore. “Questa ferita è davvero infettata. Sei fortunata che ancora non ti abbia avvelenato il sangue. Cosa è successo?” chiese rovistando nel mobiletto accanto.
“Nella barca,” cominciò parlando con difficoltà in italiano. “ delle donne mi hanno fatto partorire. Mi hanno salvata!” disse sulla difensiva. “O uccisa! Fatti medicare. In effetti poteva finire peggio”. Si guardarono per alcuni istanti negli occhi, qualcosa in lui la attraeva e la metteva in imbarazzo contemporaneamente. Le sorrise, lei abbassò lo sguardo imbarazzata. Era molto affascinante. Sentirono dei passi nel corridoio e il dottore tornò a medicarla.
La stessa suora che l’aveva portata dal dottore entrò di corsa. Harika le si avventò contro “ Orhan. Come sta? Dove è lui ora?” le urlò contro, scuotendola sull’orlo delle lacrime. “ ha una broncopolmonite in forma lieve, grazie a Dio. Fra qualche settimana potrai riabbracciarlo.” Disse sorridendo. “Da dove venite?” chiese cambiando tono ma senza togliere il sorriso dal suo volto. “Istanbul! Siamo clandestini e siamo poveri!” pronunciò l’ultima parola con vergogna e forse un pizzico di timore per la paura di essere cacciata per questo.
La suora non poté fare a meno di rimanere colpita dal contrasto tra la forza che acquisisce per il suo bambino e tra la debolezza che si impadronisce di lei quando prova vergogna. “Come sta dottor Alessandro?” chiese infine per rompere il silenzio. “Ha questa brutta ferita dovuta al parto, avvenuto senza condizioni igieniche e soprattutto, da mani poco esperte. Prenderai delle pillole che ora ti darò e verrai a farmi visita tre volte al giorno.” Harika annuì con decisione. “ Farò di tutto pur di aiutarti, cominciando dal sistemare i problemini con la legge” disse la suora. “ Fra parentesi sono Suor Maria Maddalena. E..” , “Sono Harika” disse inginocchiandosi ai piedi della suora. Stava curando lei e Orhan, le stava offrendo un posto dove vivere e soprattutto, un posto nella società. L’aveva accolta in Italia.

5 ANNI DOPO
“Ho accompagnato il signor Tommaso a casa e gli ho portato la cena” disse una donna. Era passato tanto tempo. Non era più una ragazzina immatura in cerca di sogni. Anche la sua bellezza era maturata col carattere, non si concedeva a tutti. Aveva tagliato i capelli fino alle spalle, come per dare un taglio al passato e vestiva semplice ma femminile.”Grazie, Harika. Aveva proprio bisogno di uscire a prendere una boccata d’aria pulita” disse Suor Maria Maddalena.
Parli di Harika o di Suora nel prossimo capoverso? Se di Harika dovresti cercare le parole più adatte al cambiamento di una ragazza ancora molto giovane. E più adatto alla Suora: Il volto segnato da rughe marcate, la voce tremante e il passo lento e pensante non poteva smorzare però, la giovinezza del suo animo
Ormai il passare del tempo le aveva portato via l’aspetto arzillo di cinque anni fa. Ora un ciuffo di capelli bianchi s’intravedeva dalla cuffietta. Il volto segnato da rughe marcate, la voce tremante e il passo lento e pensante non poteva smorzare però, la giovinezza del suo animo. “Ora esco con Alessandro. Dobbiamo fare ancora alcuni ritocchi al programma del nostro matrimonio. Ci pensi? Solo due mesi!” il suo italiano era notevolmente migliorato anche se l’accento si sentiva leggermente. Suor Maria Maddalena annuì pensierosa. “Ricordi? Cinque anni fa, arrivasti davanti a questo convento. Eri impaurita e non sapevi cosa fare, insieme al piccolo Orhan. Sei la figlia che il signore mi ha negato!” lasciò cadere qualche lacrima traditrice.
Harika la cinse in un abbraccio e la baciò sulla fronte per comunicarle che sentiva la stessa cosa.”Dov’è Orhan?” chiese dopo qualche minuto la suora. “Lo chiamo. Orhan? Dove sei?” gridò Harika. Un bimbetto corse verso di lei. Era cresciuto tantissimo. Mingherlino, dicevano tutti al convento, ma forte come un leone. Col tempo aveva accentuato i lineamenti della madre, cosa che, secondo quest’ultima, avrebbe attirato in seguito, flotte di ragazzine. Gli occhi chiari, erano l’unica cosa che le ricordava Giulio Spera “Il Pasticciere”, ma la cosa non la turbava più.”Ciao, Suor Maria Maddalena” salutò muovendo la manina. “Dammi un grosso bacio piccolino” disse prendendolo tra le braccia.
Harika restò a guardare. Si stava per sposare e aiutava il prossimo. Aveva una “mamma” che ricompensava quello che non era stata in passato la sua e un bellissimo bambino. Aveva tutte le porte aperte per un futuro felice, un futuro migliore. Un nuovo futuro.

9 commenti:

  1. Questo brano è molto coinvolgente,però c'è tanta gente che pensa che si ripeti sempre la stessa storia.Percui,se il messaggio che dà può essere davvero considerata la solita storia che periodicamente si ripete, non sono affatto daccordo con i giudizi tecnici,ma anche questi, sono dati in buona parte da ciò che si percepisce e spesso sono influenzati dal giudizio generale che si ha del brano.
    Sperò proprio che questa ragazza faccia carriera, perchè ha veramente un grande talento.

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  2. il racconto è molto convolgente..questa ragazza ha molto talento spero che sfonderà e scriverà un libro..ti adoro!!!!

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  3. Sono d'accordo.Maria ha davvero talento.Non capita tutti i giorni di vedere una ragazza quattordicenne con queste potenzialità.E non è l'unico brano che ha scritto!Conoscendola, non solo posso dire che è un'ottima mini-scrittrice, ma è anche una buona amica!=)

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  4. ciao gioiù è da 3 anni che ci conosciamo e devo dirti che questo è il migliore racconto che hai scritto...spero davvero che farai successo perchè te lo meriti...continua così ti raccomando..non abbandonare mai il tuo sogno di scrittrice!!tanti baci..

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  5. penso che il racconto sia un po poco realistico perchè in presenza di eccessiva casualità, ma dopotutto i racconti vengono utilizzati per recare speranza alla gente pertanto dò un giudizio molto positivo nei confronti del testo narrativo e anche nella piccola scrittrice

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  6. ho letto il racconto ...pensando di smettere subito dopo..invece..non ho potuto farlo... dovevo continuare.. complimenti a maria...hai del talento...non smettere!farai strada!

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  7. ho letto il racconto e sono rimasta estasiata... già avevo avuto l'opportunità di leggere questo brano e devo dire che è stato l'unico racconto che mi è davvero piaciuto... con questo ti dico che per me farai molta strada e spero che avrai molta fortuna durante il tuo percorso di crescita.. con questo concludo e ti mando tanti bacii...
    a lunediiiii... kiss

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  8. troppo bello picciotti leggetelo...complimenti

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  9. Io devo ammettere che non leggo mai, e questo racconto mi fece cambiare idea. Se tutti gli scrittori fossero come te, chiuque leggerebbe! Complimenti Maria! Avrai successo, e ricorda di non farti trasportare nella strada oscura, dove tutti giocano e non pensano al successo che potrebbero avere. Continua così...

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