lunedì 18 maggio 2009

il “sistema della moda”


recensione di Franco Gallo


Nella nostra comune interpretazione il “sistema della moda” e il “sistema vestimentario” tendono a confondersi: le pratiche convergenti ma in origine distinte della produzione sociale della moda come processo di valorizzazione e della gestione personale o di gruppo dello stile e del vestiario come processo di riproduzione e di comunicazione sono viste come connesse. Ciò per la circostanza, fattuale ma comunque precaria, della pervasività capitalistica della valorizzazione che si spinge, ineluttabilmente, fino all’obsolescenza programmata dei beni primari e alla loro trasformazione da beni pluristagionali a oggetti fungibili per un arco temporale ben più ridotto.
La disponibilità (illusoria perché squilibrata e di breve termine, ma oggi de facto) di una molteplicità sovrabbondante di capi ben al di là degli autentici bisogni vestimentari diretti comporta la possibilità di un’esagerata articolazione linguistica dell’abbigliamento. Di qui la comparabilità tra gli ibridismi della lingua d’uso contemporanea e il sistema vestimentario, la formazione di un gergo dell’abito generazionale e internazionale, le potenzialità metaforiche crescenti delle materie nel loro impiego per la realizzazione del prodotto abito (o accessorio o gadget) soprattutto se in congiunzioni inattese, a volte zeugmatiche, con altre materie (pelle e cotone, pelo e plastiche etc.).
Tuttavia tale versatilità linguistica dell’abbigliarsi sarebbe impossibile senza la circolazione indefinita della merce-abito dentro il sistema capitalistico della valorizzazione; l’analisi del sistema della moda non può pertanto limitarsi all’aspetto della gergalità o della purezza della dizione vestimentaria, ma deve inoltrarsi nella considerazione dei processi sociali di produzione e nella sociologia dell’identificazione dell’abito come marca di rango, status o classe.
Il sistema della moda, dunque, come processo di valorizzazione, rappresenta un caso borderline tra l’industria culturale e l’industria tout court, un luogo (affine a quello del design e del mobile) dove l’interazione tra sollecitazione e creazione del bisogno mediante operazioni simboliche e il soddisfacimento del bisogno reale assume contorni nebulosi, a meno che non si accetti, come opzione metodologica di fondo, la tesi dell’insussistenza del bisogno come dato naturale e della sua manifestazione soltanto come estrinsecazione di un immaginario contaminato dalla catena sociale dei segni e dalla sua mimesi.
Da un lato industria, da un altro parte del processo del lavoro riproduttivo (in quanto l’abito comunque ha decorsi di obsolescenza imprevedibili, in quanto riparabile, riattabile, trasferibile etc.); da un lato creazione di segni e marche, dall’altro captazione di sviluppi autonomi di significazione vestimentaria; da un lato custode di una soglia invalicabile tra alto e basso, dall’altro sempre più attento ad esplorare valichi e comunicazioni tra le due dimensioni; tutto questo rende il sistema della moda una realtà di estremo interesse psicologico e culturale e ne fa un tema inaggirabile per la poesia di Alberto Mori.
Mori ha da tempo intrapreso una lotta a corpo morto con la simbologia e la prassi sociale del consumo e dell’industria culturale, in altri termini con la modernità tardocapitalistica e le sue logiche dissipative e immaginarie, affrontando i temi del rifiuto, della scena urbana, dei non-luoghi, della tecnologia (per citarne solo alcuni); con Fashion si riporta alle tematiche viste sia in Bar sia in Distribuzione sotto l’aspetto duplice del meccanismo linguistico delle scelte compositive e della tematizzazione centralità del gesto e del corpo nei processi di identificazione.
Il meccanismo linguistico della modernità è concepito da Mori come una sorta di gigantesco procedimento mimetico-incorporativo, in cui per accumulazione il linguaggio della quotidianità affastella termini sempre meno corposamente riferibili a fatti e oggetti e sempre più vagamente correlati, piuttosto, a situazioni iconiche, stati d’animo ed esperienze immaginarie che sono suggerite dai canali della multimedialità (dalla carta allo streaming).
Tutto ciò non è privo di quell’effetto narcotico proprio del postmoderno, di quella cancellazione della coscienza critica che tanti intellettuali, da Jervis a Timpanaro, hanno giustamente denunziato; tuttavia ciò che preme a Mori, la cui posizione umanistica è quanto di più lontano dalla lode acritica del postmoderno, è preservare gli effetti estetici per lo più involontari che il postmoderno produce nella sfera di una creazione poetica originale.
Identificandosi dentro abiti e gesti, collegando questi ultimi a monikers e marchi, sloganizzando la propria corporeità gli uomini ovviamente si oggettivizzano a loro volta, ma la sintesi estetica di questa loro metamorfosi, umanisticamente una diminutio, non è necessariamente nella sua spersonalizzazione un disvalore; né lo è, se si considera a quale identico destino l’umile materia vada incontro nello spietato processo di uso e produzione che la nostra specie ha istituito - e sovvengono versi memorabili di Rilke sulla vera vita che l’abito guadagna a volte anche rispetto a colui che lo indossa, nelle particolari circostanze simboliche e sociali del suo uso:

E tu dunque, cara,
tu, sul quale gioie fascinose
mute rapide passarono. Forse
le tue frange sono felici per te-.
O sul tuo giovane robusto petto
La seta dal color verde metallo
Si sente infinitamente scacciata e di nulla sente la mancanza.
Tu,
sempre sull’equilibrio di una bilancia oscillante
posasti il profitto dell’indifferenza mercanteggiato
spesso sulle spalle. (V Elegia Duinese)

Il dramma della moda è appunto esemplare per il calvario splendente che la materia coinvolta in esso subisce: il filato elaborato dalla grezza risorsa vegetale o dalla manipolazione tecnologica di sintesi si eleva a segno, diventando metonimia della capacità umana di dare lustro e splendore con la parola alla natura propria e altrui. Certo nella moda, come in tutta la dinamica della valorizzazione capitalistica, questa dimensione è piegata alle logiche dello sfruttamento, del profitto, dello spreco e della disuguaglianza; ma non si può negare che in quella effimera radianza che il nostro immaginario produce (in noi ed altri) attraverso la fidatezza piena del nostro rapporto con l’abito ci sia anche, per quanto pervertito, il segno di una promessa di comunicazione, di potenziamento e rafforzamento della comunanza tra l’uomo e la natura.
La materia, come il batuffolo di cotone di cui Mori poeta, continua a lasciarsi soggiogare, sia pure con resistenze crescenti dovute alle limitazioni incombenti, pe ragioni antropiche, sulla sussistenza della sua stessa disponibilità. Noi peraltro stessi cadiamo vittime della fascinazione immaginaria della valorizzazione capitalistica e della fuga verso identità improbabili dentro le pieghe della libertà puramente virtuale del sistema vestimentario.
La poesia osserva il processo, salva le parole, si fa custode della possibilità, sempre latente, di un rilancio del gioco linguistico del postmoderno fino a restituircene le chiavi, a renderci quanto meno attenti alla crescente passivizzazione nel parlare e nel vestire, e a suggerirci una possibilità d’uso alternativa e concorrente.
Con strumenti espressivi articolati rispetto alla tecnica del found poem, al futurismo, a un persistente gusto preziosistico e manieristico per l'invenzione (soprattutto aggettivale), Mori ha composto un altro episodio di quell'epica della modernità dell'immaginario, del corpo e del consumo che è ormai poetica di una vita.



fara editore

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