lunedì 11 maggio 2009

alda merini

Alda Merini, Lettere al dottor G, Frassinelli, 2008, pag. 111, euro 15

“Lunghi anni cercando sopra rocce/ aspro ristoro o presso la tua Croce,/ Cristo, soffrendo, ho gravitato invano./”: questi versi di Alda Merini sono l’epigramma della sua malattia mentale, la cui storia è ben conosciuta, giacché la poeta, dopo la guarigione, molto ne ha scritto (vedasi per esempio La terra santa, Scheiwiller, 1984). Fino ad oggi, però, si è pensato che negli anni “bui” Merini non avesse coltivato la sua attività creativa. Recentemente, invece, sono apparsi alcuni inediti composti proprio in quel periodo: lettere e poesie dedicate al dottor Enzo Gabrici - il dottor G - il neuropsichiatria che ha curato Merini durante i numerosi ricoveri, dal 1965 al 1972, presso il Paolo Pini di Milano. Ora pubblicati da Frassinelli, questi testi sono perciò essenziali per comprendere meglio l’esperienza trascorsa in manicomio.
Secondo l’anziano dottor Gabrici, che redige la prefazione al volume, gli accessi nervosi di Merini derivavano dal “conflitto fra la sua natura istintivo - passionale, che trovava espressione naturale nel linguaggio della poesia, e la costrizione della normale vita famigliare che aveva accettato, con le responsabilità legate alla crescita e all’educazione delle figlie (…) e le probabili incomprensioni con il marito”. Come dire che la vis artistica di Merini “non aveva avuto modo di manifestarsi (…) e questo le aveva causato una grande sofferenza, che si era poi trasformata nella sintomatologia psicopatologica”. Il medesimo destino, d’altronde, ha colpito altre poete (ricordiamo in particolare Emily Dickinson e Fernanda Romagnoli), la cui sovversiva creatività è stata azzerata da mariti e figli nel senso di un incongruo livellamento sulla “normalità”. E Merini sentiva, non a caso, la condizione di essere nata donna come una condanna sicura alla debolezza sociale: “pressata (…) da un marito possessivo e antiquato, non so che cosa voglia dire la libertà in un animo femminile”.
Tramite l’inoculazione del “siero della verità” - il “Pentothal” - il dottor G praticava alla degente la narcoanalisi: emergevano così gli impulsi inconsci che, repressi, erano la causa dei sintomi della “pazzia”. Merini, intanto, si lasciava conquistare da un delicato e benefico narcisismo e recuperava lentamente la fiducia in se stessa: “Rendere interessante un ammalato ai suoi stessi occhi è (…) il cominciamento della sua guarigione”. Comprendeva, anziché temerle, le istanze profonde del Sé, e, attraverso il “balsamo” della poesia, risorgeva dal massacro degli elettroshock nonché dei farmaci scatenanti effetti collaterali spaventosi.
Tema di fondo di questo libro è il rapporto tra paziente psichiatrico e terapeuta. Merini sentiva il bisogno assoluto di essere amata dal dottor G: “ho guardato a lei come si guarda ad un seno materno”. Un bisogno tradito dalla nascita: “So benissimo che al mondo nessuno si occupa di me (…) è un’impressione che ho avuto sin da (…) bambina”. Il dottor G rappresentava infatti per la poeta tre importanti figure affettive e spirituali: il marito - il solo che in quegli anni avrebbe potuto aiutarla semplicemente “con un cenno, (…) un atto di comprensione” - il padre - “Almeno se il Dott. Gabrici mi dicesse ma non me lo dice (…). Per lo meno non me lo ha detto mio padre (…)” - e Dio - “(…) Ebbene, Iddio,/ io son fatta così, una mendicante,/ una che geme se tu l’allontani,/ una che senza te non può volare/”. Tanto che ogni nuovo amore era a quel tempo percepito da Merini come un ulteriore manifestarsi della patologia, una proiezione della sua attrazione nei confronti del dottor G - marito - padre -Dio.
Lettere al dottor G è un pregiato lezionario di umanesimo illuminato dalla sofferenza, un compendio di saggezza, un greve studio sull’angoscia: il lettore vi può scoprire rilevanti indicazioni circa il fenomeno dell’instabilità psichica che genera, ancora oggi, superstizioni e sospetti. Il malato di mente è troppo spesso considerato colpevole di quanto gli accade, oppure è creduto in qualche modo preda di un’oscura dimensione demoniaca. Il folle è allora il “cattivo”, il diverso, lo “stregato” e non, piuttosto, una persona che sta male e che può e deve essere curata: “(…) gli ammalati son strani/ (…)/ (…) pesci bambini/ e sono imprendibili e osceni/”. Inoltre, diversi aspetti esistenziali sono qui affrontati. La maternità, desiderio e pericolo: “(…) ma io tremo/ di generare cosa che mi atterri.//”. L’Assoluto, in cui Divino e arte sono, hegelianamente, ipostasi di un’unica forma: “io la religione la vivo e la gusto in chiave poetica, il che la rende molto interessante e assai più libera”. La follia, “misura di un sacrificio umano”. Il dolore nella sua valenza universale: “il mio dolore, il mio lutto per la morte della mia coscienza è il dolore di tutta la nostra povera comunità umana”. E da ultimo, la guarigione come dimenticanza - “Padre, se amo e dimentico, perdono,/” - e come supremo sforzo di volontà: “la cosa più grave (…) è (…) nel proposito, assurdo e malato, di non volere guarire”.
Infine, l’autrice descrive con lieve malinconia i tiepidi istanti di amicizia e di nuda verità vissuti con i “matti”: “(…) qui dentro/ ove resiste un tremito o follia/ qui si nasconde veramente il vero,/ (…)/ (…) qui era vita/ era trionfo e pallida misura/ ma quanta pace, quanto amore e quanta/ lunga preghiera, di nascosto, a sera…//”. E ricostruisce la sua libertà “nell’amore, nella gentilezza e più che mai nella fede”.
Al termine resta l’immagine di una Merini inedita, umile e conciliante, affettuosa e lungimirante, tutt’altro che pazza. Nonostante ella nella triade Croce - Arte - Follia indichi il senso della sua esistenza: “sono un’anima appesa ad una croce/”; “Cristo mio martoriato,/ pazzia chiara e divina/ come il più terso cristallo.//”.

Adele Desideri
(pubblicata ne il Quotidiano della Calabria, 1 dicembre 2008, rubrica Libri e letture, pag 61)

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