da: Opera 9/11 : la cecità amorosa
[…]
III
et in pulverem reverteris
Davanti al muro la costellazione. A ogni cosa caduta
corrisponde una luce, uno spazio
che prima era occupato. Pensa che se tu cadi
fai luce.
Ecco le manichette e le bobine e nessun resto riconoscibile, né
un timone di coda
né motori Pratt&Whitney in acciaio e titanio, mozzi che reggono
fuochi di kerosene
ma il turbo di uno ScottWarrior senza le lame di ventilazione
e odore di cordite. Il sole
circola sui frammenti come una persistenza
di felicità. Ricordo
una ragazza lieve come una foglia che si staccò da sola
dall’albero cavernoso del grattacielo
come a dire
io per l’ultima volta.
Al centro dei miei occhi lei batteva la luce e si torceva
nella demolizione colossale
poi vidi un uomo perdere la presa
come uno di quei seri colpi di vento
che stabilizzano la radicalizzazione dell’albero.
I corpi si distinguevano dalle macerie
per la velocità di caduta
e perché a differenza del cemento si accumulavano sordamente
sull’incomprensibile
biancore dell’asfalto
come masse efficaci e senza spigoli
mentre il cemento diventava polvere – ma il cemento
come le cose che non furono vive
non ritorna polvere.
I cani dopo sono morti a decine. Solo 10 secondi
per deporre l'attrezzatura e salire nel ruggito delle macerie. I colli
incamiciati da pozze di sole
e un suono d'oboe dalle stoppe bruciate
preceduto da un crepitare continuo: dagli altoparlanti
la musica degli uffici – nessun oroscopo
annunciava il disastro – ma l’eco di un’antica profezia
e il rumore di corpi che cadevano
poveri corpi fatti di paura
primordiale, un gesto come avere gettato il pane.
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