mercoledì 16 settembre 2009

Perché i poeti sono poveri - rubrichetta n. 0 su poeti e dintorni -




immagine presa dal blog "i colori dell’anima"
http://oboe.altervista.org/blog/

Perché i poeti sono poveri? – rubrichetta n. 0 su poeti e dintorni -

Vi siete mai chiesti perché i poeti sono poveri? Almeno quelli veri…
Mia moglie non butta mai niente, figuriamo i testi scolastici. Un giorno in un armadio polveroso, mettendo a posto, è spuntato un tomo giallognolo senza copertina. All’interno, di traverso, c’era appuntato nome e cognome di mia moglie, nonchè la classe frequentata (3°E) . Un volume bello vissuto di 1241 pagine. Sfogliando inciampo su un intenso pezzo a pag 795, sempre attualissimo nonostante abbia quarant’anni. Un articolo scritto da Domenico Porzio, ripreso dalla rivista Epoca XXI, 1970, dal titolo: perché i poeti sono poveri? (risposta alla domanda di un ragazzo fatta al giornalista).
Vi invito alla lettura, a riflettere, a pensare perché in Italia le cose non cambiano mai.

“Io da ragazzo stavo in una strada dove abitava un poeta povero. Viale Mugello, prima della guerra, era ancora periferia di Milano: un viale largo, spartito in tre vie da due aiole d’erba gracile e da due file di platani; un viale breve, con una scuola gialla e poche case, mozzato ai lati dai un binario della ferrovia.
Lui, il poeta, abitava nella prima casa del viale, in due locali al pianterreno: un appartamento modesto nel quale sbirciavo uno scaffale di libri contro una parete di fiori sbiaditi e in cui a sera si accendeva una lampadina fioca. Usciva dal portone a ore fisse : tutte le volte che potevo, cercavo di trovarmi sui suoi passi per osservarlo da vicino; sapevo chi era, avevo già letto alcune sue poesie e il suo misterioso mestiere mi stupiva. Indossava un abito grigio, sempre lo stesso, liso e pulito, portava quasi sempre una borsa a cartella nella quale forse , nascondeva tra carte e libri, rientrando, qualcosa per la cena; camminava rasente al muro, come un ripetente, con uno sguardo insieme assente ed ironico e con un’ombra di un sorriso sulle labbra sottili. Quando a sera, rincasava, sembrava più allegro: si fermava ad accarezzare la minuscola figlia coi capelli crespi che saltellava nei quadrati del gioco dell’oca, disegnati per terra e sorrideva ad un volto bruno e triste di donna in attesa dietro ai vetri. Certo, lasciava alle spalle un amaro lavoro quotidiano dal quale spremeva l’indispensabile per vivere: aveva finalmente la notte tutta per sé, per i suoi libri e per quelle straordinarie parole che disponeva con pazienza su carta. Dal balcone della mia stanza, al quarto piano dirimpetto, mi accadeva spesso di fissare, fantasticando, la sua finestra al pianterreno, con quella luce nebbiosa dietro le mezze tendine, ed il lento muoversi di una vaga ombra. Forse fu una di quelle sere che la sua mano scrisse i seguenti tre memorabili versi “Ognuno sta solo sul cuor della terra/trafitto da un raggio di sole:/ed è subito sera”.
Il poeta premio Nobel Salvatore Quasimodo fu per tutta la vita un uomo povero: il premio svedese e il riconoscimento mondiale alla sua poesia gli diedero negli ultimi anni una certa agiatezza: ma non ville, né appartamenti , né proprietà terriere. Non ne ha Giuseppe Ungaretti, né Eugenio Montale, né altri che le storie letterarie indicano come i depositari della poesia italiana contemporanea. Costoro hanno pubblicato libri e raccolte di versi, lodati e lacrimati anche dai ricchi e dai potenti, ma nessuno di essi vive della propria poesia. Tutti si sostengono, quando lo hanno, con un secondo mestiere: l’insegnamento, il giornalismo, la collaborazione, alla radio e alla televisione; e talvolta con lavori umili e umilianti. Certo, una ideale società civile dovrebbe mantenere a proprie spese almeno i vecchi e riconosciuti suoi grandi poeti: in altri paesi assolvono lo scopo, anche se parzialmente, Fondazioni e Accademie; a noi abolita l’Accademia fondata nell’era dell’Orbace, nessuno ha sentito il dovere di sostituirla. Il denaro pubblico ha, forse, altri impegni da assolvere. D’altra parte, che pretende la genìa ei poeti? Non sanno che carmina non dant panem? (la poesia non dà a vivere).
In realtà i poeti hanno sempre rappresentato uno scandalo. Platone li riteneva uomini senza senno.
Il giudizio, nei secoli, si è modificato, ma la società colloca i poeti tuttora in un angolo, dietro la lavagna: perché la nascita di un poeta è sempre un attimo di disordine, e questo disordine – ha scritto Quasimodo – genera insofferenza. Sono creature, i poeti, che credono in modo scandaloso e sono sempre innamorati scandalosamente: anche quando sono disperati e non rinnegano mai la vita e dicono parole vive ma talvolta oscure, come voce di un oracolo di cui temiamo il significato.
Il poeta non è, come nella romantica immagine di Shelley, un usignolo che sta al buio e canta per alleviare la propria solitudine. E un irregolare il quale non teme nemmeno la morte, abituale visitatrice dei suoi pensieri: egli è sereno quindi, là dove non ci spaventiamo, ed è violento là dove non ci spaventiamo, ed è violento là dove vorremmo quiete ed acque calme. Il poeta non diventa, ma nasce, e quando è tale, egli è uomo intento a perseguitare senza scampo le omissioni d’amore; diventa un pericolo perché – scrisse Dylan Thomas – vuole bruciare e restituire il mondo. Il suo abbraccio è sempre un atto di violenza.
Sono poveri quindi, dunque, per diritto: perché devono essere liberi se vogliono costruire la storia e la cultura che conta. Se le loro parole decadessero a un semplice prodotto di consumo e divenissero fonte di ricchezza, scomparirebbero le verità dalla terra e con esse la poesia. Brancoleremmo senza bussola in un mondo senza amore e allora, ha scritto Quasimodo, “cacciati i poeti dalla terra come la grande peste, verrà il tempo del silenzio. Così le sabbie ricoprirono molte civiltà”.

Domenico Porzio (in Epoca, XXI, 1970, n. 1039)

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