lunedì 2 febbraio 2009

alessandro moscé

UNA LIRICITA’ TRA FANTASMI DI LUOGHI REALI

Alessandro Moscè è di Ancona e vive a Fabriano ma nelle sue poesie le Marche sono ben compendiate, da nord a sud, dalla riviera alle colline. Qui parlo della recente raccolta Stanze all’aperto, pubblicata da Moretti & Vitali nel settembre 2008 con una introduzione di Alberto Bertoni. Moscè ha già pubblicato due libri di saggi, Luoghi del Novecento (Marsilio 2004) e Tra due secoli. Poeti interpreti del nostro tempo (Neftasia 2007) e tra i due l’esordio poetico, nel 2005 (L’odore dei vicoli, Quaderni del Battello Ebbro).
Ci sono poeti che sono anche saggisti e viceversa, Alessandro sembra appartenere a questa categoria. Così è abbastanza curioso che questo libro di poesie, Stanze all’aperto, abbia un sommario all’inizio e non un indice in fondo, come se si trattasse di una raccolta di saggi, diviso per aree tematiche, e poi che lui stesso ci introduca e presenti la prima sezione (o il primo capitolo) : diario di mare.
Non è andato molto lontano, per le sue vacanze, Alessandro Moscè, perché quelle che vengono descritte sono le nostre spiagge e quel mare intimo, l’Adriatico, che è come insinuato tra occidente e oriente. In effetti, nonostante il titolo, questa non è una poesia nomade o da escursione, ma un viaggio introspettivo, anche un viaggio nel tempo, oppure, con le parole dell’autore, un diario dell’io lirico che sembra avere il ritmo semplice e misterioso dell’onda che va e viene. Sarei tentato di dire che proprio questo è il ritmo dei versi. E si potrebbe anche proporre una similitudine così marina, questo ritmo da perpetuum mobile, tanto questi versi sembrano disegnati sulla pagina come lingue di mare sui litorali. E ne portano anche gli odori, subito, nella prima composizione: “Il lungomare odora / di pesce fritto, di caffè all’aperto / in quel cielo colpito / dalle insegne fluorescenti dei bar / davanti alle case”. Oppure le voci, ai bordi delle strade, in piazze assolate: “Dai chioschi della frutta / ai bar dimessi / senti parlare di rincaro della spesa / e di calciomercato”. Sì, ma non è soltanto così. In realtà queste poesie hanno una tensione verticale più che orizzontale, e una vocazione verso l’immaginario e i ricordi, a volte fondendo i due registri con dei cortocircuiti che spiazzano il lettore, il quale magari si era già pigramente ambientato, cioè – specialmente se marchigiano – aveva prontamente trovato dentro di sé le immagini analoghe, le visioni e le memorie corrispondenti ai luoghi e ai gesti dello scrittore. Ma appunto, non è così. Il linguaggio è ormai un materiale troppo complesso e usurato, e se l'oralità quotidiana galleggia nel grande mare della comunicazione strumentale e dei gerghi, in poesia diventa qualcosa di corporale, perché il linguaggio gioca con i residui mnestici ed è come sottoposto a repulsioni e attrazioni chimiche. A volte le sue concrezioni divengono sintomi che vanno interpellati. Come in quella poesia cardarelliana e sensuale (la VI) che parla di una ragazza in spiaggia e si chiude così: Attraverserà l’epoca dei miti estivi / e non la rivedrò più / passare davanti al tavolo bianco / con le natiche appena gonfie, / con i capelli che nascondono / i sensi rimasti altrove”. Dice bene Alberto Bretoni quando parla di “una fitta trama di incrinature portate sempre al limite dell’epifania: spiragli aperti all’immaginazione del lettore e misteriose incursioni in un mondo che può venire scandagliato in profondo soltanto da un allusivo, mai esibito, occhio interiore”.
Fabriano campeggia nel ‘diario di collina’, una collina fabrianese che ‘respira gli odori della notte’: Nelle case il vuoto / lo senti tra le pieghe del lenzuolo, / nello sbadiglio di una madre / che stira”. Quello che si respira qui è però un senso di stupore verso quei fantasmi realissimi che possono avere anche un camice blu, prendersi un caffè all’alba con dentro un goccio di anice, dare un’occhiata agli uffici di una delle più grandi multinazionali, la Indesit, e restare nello stesso tempo profondamente, tematicamente ancorati a una richiesta di senso delle cose. Che cosa vuol dire? Per me questo: che al di là dei fenomeni e dei fonemi di una quotidianità cittadina che arriva sulla pagina “priva di lusinghe fonetiche” (e spesso sospinta da energiche pulsioni liriche), mi sembra che questo libro sia tutto un palpeggiare, un toccare da un lato la realtà, dall’altro il mistero dei suoi effetti struggenti nel linguaggio. “Luci ininterrotte / sui palazzi in faccia alla strada, / luci che escono timide da cucine / nell’ora masticata dei piatti”. E’ il tempo, ‘masticato’, ruminato, che sembra sfuggire di stanza in stanza, imprendibile, e l’unica consolazione (Seamus Heaney dice ‘riparazione’, the redress of poetry) consiste nell’acquisire quella consapevolezza (o maturità) attraverso la quale si accetta il ‘masticato’ fluire delle ore non solo nelle stanze all’aperto, nei discorsi di ogni giorno, nelle descrizioni domestiche e paesaggistiche, ma anche nell’interiorità, nei magazzini della memoria, dove a volte l’io lirico si accende e si perde.

Marco Ferri

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