giovedì 11 giugno 2009

Dai racconti dell’alba di Antonietta Gnerre

Dai racconti dell’alba di Antonietta Gnerre

Ogni destino è una storia di vite che si scontrano dove lo spazio s’incrocia col tempo.

Lungo il tempo le lampadine delle aspettative, mutano forma. Questo è il destino di ogni persona divorata dal tarlo delle ingiustizie e delle raccomandazioni. Marisa camminava con i suoi pensieri stretti nella borsa della speranza quel giorno, per fuggire dal suo paese. I sogni erano distanti, racchiusi in lunghe code noiose e snervanti. L’hotel dei posti di lavoro, ospitava tutti i passeggeri di questa terra, anche quelli con il piumaggio rossiccio, che assomigliano sempre di più a strani indiani. Senza possibilità di usufruire di questo lusso, del posto di lavoro, la coscienza di questa esile donna proseguì voltando le spella all’ipocrisia, per inseguire un viaggio monitorato da una patologia progressiva che aumentava di ora in ora. La strada era buia e tortuosa e i piedi le sembrarono un’unica cosa con gli infradito colorati dai brillantini; un blocco di roccia deformato da un dolore atroce indovinato dalla breccia che cresceva intorno a i suoi piedi. Da lontano con le prime luci dell’alba, arrivò in un posto inesistente. Sentì solo il suono di un violino, e la voce di due donne che la circondarono con note incrociate. Questo piccolo viaggio, fatto di illusioni e sbadigli suscitò molti dubbi. Le due donne sembravano uscite dalla tela di un quadro degli anni trenta, distrutte dalle fatiche dei campi. Le case in questo viaggio della mente apparivano strettissime e quadrate, tappezzate da tanti volti che sembravano incubi. Le case erano accarezzate a mezzogiorno dalla luce del sole e dal suono delle campane. Tutti i ricordi sbucarono dai tetti modellati da colline pettinate di verde. Marisa era in viaggio per cambiare se stessa. E queste due donne apparivano davanti a i suoi occhi come figure complesse e distanti. Vestivano una sorta di abiti stracciati e disordinati con i capelli neri e lunghi, raccolti a coda dietro la nuca. Nessuna di loro parlò con la giovane donna guardarono insieme intensamente, senza respirare e senza muoversi, la cerniera della lunga coda di grano, che scorreva dai cambiamenti imminenti del paesaggio. La sera si aprì improvvisamente e sfilò di nuovo con le sue lampadine fulminate e rotte. Due passi avanti, uno indietro; il corpo, quello di Marisa, con le braccia aperte crollò in un sonno lunghissimo come la morte. Vibrò solo il suo olfatto offeso dai rifiuti. I rifiuti che fissarono quel corpo nei ripostigli arrotolati del tempo. E si guardò come spiga dall’alto, impastata sulla terra succhiata dalla vergogna. Il ritmo lento e continuo della voce di quelle due donne moltiplicò le sue speranze senza intaccarle. Queste due donne con umiltà e coraggio la ricondussero sulla strada delle lancette. Marisa doveva ritornare di nuovo nel tempo. E come nell’infanzia tutto le sembrò possibile e più accettabile per schizzare di nuovo tra la gente e senza rimpianti. Il rigido vetro della paura, spuntò di nuovo come la gramigna. La realtà era ancora impregnata di rinunce e di privilegiate ombre che si trasformano di continuo. Il sole quel giorno le sembrò diverso. Per ritornare all’ordine meraviglioso e per sviare il passo lento delle file delle attese, Marisa doveva riparare tutte le lampadine: una ad una con pazienza e coraggio. E doveva riparare tutte le aspettative della gente che sembravano rapite dalle civette che facevano la fila davanti alle urne bianche del potere. Il sogno senza sogno strisciò di nuovo, sulle pagine delle vertebre e nel bozzolo fermo delle attese, sotto il metallo liquido del cielo. Marisa guardò quella lunga via fatta di foschia e di teli in detrito, dove il respiro prendeva forma per mutare in qualcosa. La porta del cielo non si era ancora spalancata per lei. Le gioie i tormenti i sussulti le sembrarono lontanissimi. E quel crescere della parola aumentò ancora per comprendere lo spettacolo meraviglioso dell’ancora. Il pensiero e la realtà non si scontrarono più nell’incendio della sensibilità. Marisa doveva lottare contro l’ingiustizia, doveva solo attraversare i suoi giorni, per trascrivere sulla superfici della carta, la vibrazione della luce racchiusa nella libertà di pensare.

Dai racconti dell’alba di Antonietta Gnerre

Ogni destino è una storia di vite che si scontrano dove lo spazio s’incrocia col tempo.

Lungo il tempo le lampadine delle aspettative, mutano forma. Questo è il destino di ogni persona divorata dal tarlo delle ingiustizie e delle raccomandazioni. Marisa camminava con i suoi pensieri stretti nella borsa della speranza quel giorno, per fuggire dal suo paese. I sogni erano distanti, racchiusi in lunghe code noiose e snervanti. L’hotel dei posti di lavoro, ospitava tutti i passeggeri di questa terra, anche quelli con il piumaggio rossiccio, che assomigliano sempre di più a strani indiani. Senza possibilità di usufruire di questo lusso, del posto di lavoro, la coscienza di questa esile donna proseguì voltando le spella all’ipocrisia, per inseguire un viaggio monitorato da una patologia progressiva che aumentava di ora in ora. La strada era buia e tortuosa e i piedi le sembrarono un’unica cosa con gli infradito colorati dai brillantini; un blocco di roccia deformato da un dolore atroce indovinato dalla breccia che cresceva intorno a i suoi piedi. Da lontano con le prime luci dell’alba, arrivò in un posto inesistente. Sentì solo il suono di un violino, e la voce di due donne che la circondarono con note incrociate. Questo piccolo viaggio, fatto di illusioni e sbadigli suscitò molti dubbi. Le due donne sembravano uscite dalla tela di un quadro degli anni trenta, distrutte dalle fatiche dei campi. Le case in questo viaggio della mente apparivano strettissime e quadrate, tappezzate da tanti volti che sembravano incubi. Le case erano accarezzate a mezzogiorno dalla luce del sole e dal suono delle campane. Tutti i ricordi sbucarono dai tetti modellati da colline pettinate di verde. Marisa era in viaggio per cambiare se stessa. E queste due donne apparivano davanti a i suoi occhi come figure complesse e distanti. Vestivano una sorta di abiti stracciati e disordinati con i capelli neri e lunghi, raccolti a coda dietro la nuca. Nessuna di loro parlò con la giovane donna guardarono insieme intensamente, senza respirare e senza muoversi, la cerniera della lunga coda di grano, che scorreva dai cambiamenti imminenti del paesaggio. La sera si aprì improvvisamente e sfilò di nuovo con le sue lampadine fulminate e rotte. Due passi avanti, uno indietro; il corpo, quello di Marisa, con le braccia aperte crollò in un sonno lunghissimo come la morte. Vibrò solo il suo olfatto offeso dai rifiuti. I rifiuti che fissarono quel corpo nei ripostigli arrotolati del tempo. E si guardò come spiga dall’alto, impastata sulla terra succhiata dalla vergogna. Il ritmo lento e continuo della voce di quelle due donne moltiplicò le sue speranze senza intaccarle. Queste due donne con umiltà e coraggio la ricondussero sulla strada delle lancette. Marisa doveva ritornare di nuovo nel tempo. E come nell’infanzia tutto le sembrò possibile e più accettabile per schizzare di nuovo tra la gente e senza rimpianti. Il rigido vetro della paura, spuntò di nuovo come la gramigna. La realtà era ancora impregnata di rinunce e di privilegiate ombre che si trasformano di continuo. Il sole quel giorno le sembrò diverso. Per ritornare all’ordine meraviglioso e per sviare il passo lento delle file delle attese, Marisa doveva riparare tutte le lampadine: una ad una con pazienza e coraggio. E doveva riparare tutte le aspettative della gente che sembravano rapite dalle civette che facevano la fila davanti alle urne bianche del potere. Il sogno senza sogno strisciò di nuovo, sulle pagine delle vertebre e nel bozzolo fermo delle attese, sotto il metallo liquido del cielo. Marisa guardò quella lunga via fatta di foschia e di teli in detrito, dove il respiro prendeva forma per mutare in qualcosa. La porta del cielo non si era ancora spalancata per lei. Le gioie i tormenti i sussulti le sembrarono lontanissimi. E quel crescere della parola aumentò ancora per comprendere lo spettacolo meraviglioso dell’ancora. Il pensiero e la realtà non si scontrarono più nell’incendio della sensibilità. Marisa doveva lottare contro l’ingiustizia, doveva solo attraversare i suoi giorni, per trascrivere sulla superfici della carta, la vibrazione della luce racchiusa nella libertà di pensare.

sul blog narrabilando di Alex Ramberti

1 commento:

  1. un testo breve ma molto interessante.
    mi sembra che questo tipo di poetica - in cui si fondono immagini insieme sorprendenti ma non forzate, alcune tematiche etiche che restano sullo sfondo senza appesantire o banalizzare, spunti e slanci metafisici (il sogno senza sogno, il posto inesistente ecc.) che mi sembrano la novità più rilevante, il tutto soffuso e amalgamato in questa atmosfera fiabesca e onirica, ipnotica e delirante - si addica particolarmente alla poetica di antonietta gnerre, il cui lavoro seguo da tempo.
    se riuscirà ad andare avanti su questa strada, a scrivere altre cose altrettanto ispirate, a scendere in se stessa e approfondire la sua ricerca come ha fatto in questo pezzo, credo possa davvero approdare a dei risultati davvero significativi.
    livio borriello

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